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SAGRA DELA PASTA DEL VERGARO

PAGINA DEDICATA AL VERGARO

 

IL VERGARO

Quando le greggi transumavano dalle campagne romane ai pascoli montani, erano accompagnate da un'intera struttura di uomini con incarichi e responsabilità ben codificate.

In testa, quale rappresentante dei proprietari, c'era il VERGARO, il responsabile della gestione di tutti i pastori, dei loro spostamenti, della “spesa” necessaria al loro mantenimento, della custodia e manutenzione dei prodotti caseari. Aveva un vice, il VERGAIOLO che lo aiutava e sostituiva, in sua assenza, nelle funzioni.

Nell'ordine delle responsabilità subito dopo veniva il BUTTERO che si occupava dei carretti, dei calessi, dei muli e dei cavalli quindi dei trasporti in genere.

Con una sua autonomia operativa, c'era il CACIARO il vero professionista del formaggio e della ricotta che si producevano all'aperto, in montagna in capanne che si riattivavano di anno in anno.

Essendo i pastori sempre vicini alle loro greggi, c'era qualcuno che curava il trasporto dei loro bagagli – cassette di legno con pochi effetti personali – che si chiamava il BAGAJONE .

Poi i pastori, a seconda della tipologia di pecore che custodivano – e che avevano esigenze di pascolo diverso – venivano chiamati con nomi diversi: il LATTARO che portava nei pascoli migliori le pecore che producevano latte, il MONTONARO che guidava i montoni e sovrintendeva alla monta nei periodi giusti per concentrare la produzione di agnelli quando c'era maggior richiesta di mercato, il SODARO per le pecore che non avevano ancora figliato, le “sode”, e l' AGNELLARO per pascolare gli agnelli.

In fondo alla scala delle responsabilità c'era il BATTISECCHIO, incaricato di dare la sveglia appunto battendo dei coperchi contro i secchi. Poi veniva il BISCINO che aveva cura dello stazzo dove pernottavano le pecore ed infine il RIBISCINO, una specie di mozzo di stalla a cui venivano affidati i lavori più semplici. Essendo un neoassunto, il suo impegno più importante era quello di procurare sempre acqua fresca per i pastori.

Preghiera del Biscino

IL MERCANTE A TOLFA

In altre zone dell'Italia centrale è facile ritrovare cenni ad un tipo di vita caratterizzata da attività pastorali con la presenza del Vergaro. Si riporta un estratto di alcune pagine dedicate allo scrittore Basilio Pergi sul sito http://www.latolfa.com . Si può leggere quanto scritto circa la vita pastorale nella zona di Tolfa:

UN MESTIERE SCOMPARSO:

IL « MERCANTE DI CAMPAGNA »

Sul finire del XIX secolo e l'inizio del XX, in piazza del Pantheon a Roma si potevano incontrare molti personaggi che oggi definiremmo strani: vestito scuro, bastone dal manico ricurvo, cappello nero a larghe falde, pancetta prominente, colore molto abbronzato nelle guance grassocce, ma soprattutto portafoglio ben fornito a più scomparti o, come si diceva allora, a fisarmonica.

Proprio da queste caratteristiche dell'aspetto si riconosceva subito che quel personaggio, che immancabilmente si recava a pranzo alla « Rosetta » era un « mercante di campagna », personaggio tipico della Maremma, da non confondersi né con il « latifondista » né con il « moscetto » ma dei quali era la via di mezzo.

Il mercante di campagna era colui che marcava con il proprio marchio a fuoco un certo numero di bestie. Il nominativo « mercante » non sta infatti per commerciante o trafficante, cioè colui che compra o vende qualsiasi merce, ma sta ad indicare un proprietario di bestiame che fa portare incise a fuoco sugli animali le sue iniziali. Perciò era facile sentire frasi come questa: « ho tremila pecore con il mio merco », oppure « ho quattrocento vacche con il mio merco », od ancora « ho quaranta buoi con il mio merco », e così via. (1) Il Mercante non era un latifondista perché non era proprietario di vasti appezzamenti di terreno superiori al migliaio di rubbi romani (1 rubbio = 18.484 mq.), ma affittava qualche tenuta in Maremma a seconda dei suoi bisogni e per la sola stagione invernale. Ovviamente l'affitto poteva essere, ed a questo tendeva il mercante, pluriennale, per tre o nove anni.

Il Mercante non era un « moscetto », perché il moscetto si limitava ad avere una proprietà di qualche centinaio di pecore e qualche decina di vaccine e cavalli, e si accontentava di trovare il pascolo per i suoi animali nelle terre di proprietà delle Università Agrarie che annualmente affittavano il pascolo invernale, diviso in « quarti » e per quella superficie che non era richiesta dagli utenti della Università stessa, che avevano la precedenza sia a pascolo che a semina. Il Mercante, mediamente e se voleva essere degno di tal nome, era proprietario di un gregge di circa tremila pecore ed una mandria di 400-500 capi vaccini e cavallini, più qualche decina di bestie da soma o da tiro o da cavalcare, indispensabili per la propria attività; ebbene, tutte queste bestie erano marchiate a fuoco con le iniziali del Mercante cioè dell'imprenditore che si era dato, spesso per secolare tradizione di famiglia, a quella attività agro-pastorale.

La vita del Mercante non era né facile né semplice. Quando stava in Maremma d'inverno egli doveva sorvegliare e dirigere la vita della sua azienda. In ogni attività agro-pastorale più ad indirizzo zootecnico che agricolo, dimensionata come sopra detto ed articolata solo o quasi sull'allevamento ovino, vaccino e cavallino, esisteva un personaggio singolare: il casengo. Compito del casengo era di provvedere innanzi tutto al trasporto dello « scarico » cioè dei prodotti dell'azienda quanto mai deperibili, che possono così riassumersi: formaggi, ricotte, agnelli, « bassette » (pelli di agnelli solamente seccate ma non conciate) e trasporto, al ritorno, della « grascia » cioè dei viveri che per contratto il Mercante doveva passare a tutti i suoi lavoratori, consistenti in olio, lardo, legumi, pasta, farina o pane, sale ecc. e quanto altro richiesto di volta in volta dai pastori che ben di rado si allontanavano dalla « capanna ». Il casengo teneva i rapporti tra il Mercante, che di solito abitava in uno dei casali esistenti, se esistevano, nella tenuta, oppure in una casa d'affitto nel paese più vicino, e i pastori. Il casengo inoltre doveva badare che il carro o i carri fossero sempre in ordine, che i muli fossero ben tenuti e robusti in quanto le strade erano sì e no dei tratturi assolutamente impraticabili per il fango o le salite eccessive e poi perché i viaggi che egli doveva fare non si limitavano solo al breve tratto intercorrente tra la capanna e la casa padronale: ben più importante e più lungo era il percorso per consegnare lo scarico, una volta controllato dal Mercante, ai compratori fissati in precedenza dal Mercante proprio in quelle soste al Pantheon di cui si è detto, e dove si discuteva fra un bicchiere e l'altro di prezzi e tempi di consegna. Al Pantheon si decidevano i prezzi del formaggio fresco che il casengo poi avrebbe pensato a consegnare alla « caciara », cioè lo stabilimento che avrebbe proceduto alla salatura e conservazione del prodotto e spesso anche alla vendita del pecorino salato in forme dette mercantili, cioè del peso medio di 18 kg. l'una, perché questa era la pezzatura richiesta dal mercato, specie degli Stati Uniti che erano all'epoca i migliori acquirenti del nostro « pecorino romano ».

Compito importante del Mercante era selezionare la qualità delle sue pecore e quindi la scelta dei montoni adatti alla riproduzione. Questi erano acquistati in appositi mercati e fiere di bestiame e la massima cura era riposta nella loro scelta. Infatti era dai montoni che si riusciva ad avere una razza più selezionata e perciò le migliori qualità, come la sopravissana e la merinos importate dall'Australia, che raggiungevano prezzi, per allora, astronomici; da essi dipendevano la grossezza dell'agnello e la quantità della. lana, cioè il peso del vello, e quindi il maggior ricavo possibile dall'allevamento della pecora stessa. Un vello di pecora poteva pesare, se di padre merinos, anche una media di tre o tre e mezzo kg., ma se il vello proveniva da padre bastardo raggiungeva sì e no due o due e mezzo kg. La lana era uno dei tre prodotti base delle pecore; gli altri erano l'agnello e massimamente il latte che doveva, per far chiudere il bilancio con qualche guadagno, dare in un anno una decina di kg. di formaggio più la ricotta.

Nel periodo della « sbacchiatura » il casengo doveva consegnare gli agnelli ai loro rivenditori e si sa che l'abbacchio romano è ricercatissimo sul mercato, quindi li doveva consegnare secondo le richieste del tale o tal'altro acquirente sia con « bassetta sotto », cioè con la pelle compresa nel peso dell'agnello, sia con la « bassetta a parte » perché così convenuto tra il Mercante e il compratore. Alcune o tutte le pelli poi potevano essere vendute alle concerie e allora il casengo doveva curare la loro consegna. Nell'azienda lavorava anche il « biscino », che in genere era un ragazzo sui quattordici anni che aveva l'incarico di non far mancare la legna per il fuoco né l'acqua che spesso era distante e si doveva trasportare su carovane di asini dalla sorgente alla capanna. Il biscino era, insomma, colui che doveva fare tutti quei piccoli servizi che sempre erano richiesti in una azienda estremamente fattiva e movimentata come era la vita in una capanna. Egli doveva ancora « girare le reti »: dopo la munta serale le pecore erano chiuse — come si è detto — in un recinto formato da paletti in legno ed una lunga rete di corda a larghe maglie, ove strette l'una all'altra passavano la notte; ecco perché tutti i montoni erano privati delle corna robuste ed attorcigliate, che avrebbero potuto impigliarsi nelle maglie della rete, causando loro il ferimento o addirittura la morte.

Ovviamente, quello spazio al mattino risultava coperto di escrementi sui quali non era bene far riposare ancora le pecore la notte seguente, così il bilancio scioglieva la rete del recinto e la trasportava subito appresso, in modo che il gregge nella notte successiva potesse sdraiarsi su terreno asciutto o per lo meno pulito. Il terreno reso così fertile per gli escrementi lasciati dalle pecore è ancora oggi detto « grasceta » ed era utilizzato per la semina l'anno seguente.

Il centro dell'azienda era la capanna: era costruita con armatura in legno, in genere a forma circolare, con pareti verticali per circa due metri di altezza e coperta da un tetto a cono. Tanto la parete circolare che il tetto a cono erano costituiti da un robusto traliccio in travi di legno completamente ricoperto di materiale stramineo, in genere fasci di ginestra e di paglia, ben chiusi tra di loro in modo che le piogge scivolassero sui vari fasci senza poter penetrare all'interno. L'unica porta era dello stesso materiale ed il fumo usciva da una apposita apertura al centro ed al colmo del tronco di cono che formava il tetto della capanna stessa.

Tutt'intorno, all'interno della capanna, esisteva la solita rapazzola che già abbiamo descritto a proposito delle casette dell'Università Agraria e che era appunto il posto letto dei pastori, i quali vi dormivano divisi l'uno dall'altro da una leggera parete verticale sempre in traliccio stramineo. Sulla rapazzola e tutto intorno erano deposte alcune pelli di pecora che servivano da materasso, ma più ancora da coi¬bente sulla parete esterna della capanna che certo non era calda come la parte interna, grazie al fuoco posto al centro della capanna stessa. Infatti, chi giaceva sulla rapazzola aveva un lato esposto alla fredda parete straminea, appunto riparata solo da pelli di pecora, e l'altro lato del corpo esposto al fuoco sempre acceso perché necessario alla cottura del formaggio.

Nei pressi della capanna era ubicato il « guado », che consisteva in una fila di passaggi obbligati ed un retrostante ampio spazioso recinto. Nel recinto erano spinte le pecore che poi erano obbligate ad uscire dagli stretti passaggi suddetti, dove era appostato il pastore che metteva loro un gancio sul collo e le fermava per il tempo necessario alla mungitura, poi la pecora tornava alla sua rete. Il latte veniva raccolto in appositi recipienti in legno e da questi, una volta riempiti, trasportato alla capanna e versato nella capace caldaia posta sul fuoco centrale e sorretta da un aggeggio, a forma di forca e girevole, detto « somaro » che permetteva il sollevamento e, ruotando, la posa della caldaia sul fuoco. La mungitura si svolgeva due volte al giorno, la mattina e la sera.

Il « caciaro », altro personaggio scomparso ma importantissimo in una capanna, provvedeva alla cottura del latte, alla immissione del caglio (stomaco seccato degli agnelli uccisi), alla estrazione delle forme di formaggio ed alla loro sistemazione nella « cascina », specie di nastro in legno leggero molto fino e pieghevole, che poi veniva stretto con un apposito laccio fissato all'estremo della cascina stessa. Una volta estratta la forma di formaggio era ben pressata per farne uscire l'acqua residua e solo allora poteva costituire un vero formaggio. Quando si era tirata fuori la forma del formaggio il grosso caldaio era rimesso sul fuoco e fatto bollire di nuovo finché sulla superficie compariva la ricotta che veniva presa con una grossa ramina e deposta nelle « fuscelle ». Le fuscelle erano piccoli tronchi di cono fatti di giunchi intrecciati e costruite, dietro un compenso a parte, dai pastori mentre il gregge pasceva libero e all'aperto sotto la loro sorveglianza, ma ancora di più del fedele cane che provvedeva ad avvertirli di ogni e qualsiasi pericolo.

Ricavata la ricotta, il calderone si rimetteva per la terza volta a bollire brevemente e quel residuo di latte, che veniva detto « scotta », serviva da mangiare per i maiali che sempre erano allevati nei pressi delle capanne per due ragioni ugual-mente importanti: per non far andare perduto niente del prezioso latte ovino e perché i maiali, a suo tempo, avrebbero fornito le salsicce, il lardo, la ventresca e tutto il resto che il Mercante doveva fornire come « grascia » ai suoi pastori. La vita del pastore era dura e movimentata: alle prime luci dell'alba iniziava la mungitura e tutti erano impegnati in quel lavoro, il caciaro con la sua caldaia, i pastori a mungere, i biscini a guidare le pecore prima nel « guado » e poi alle « bocche » cioè a quei passaggi obbligati, dove le pecore non andavano volentieri e perciò i biscini erano accompagnati dai cani.

Il cane del pastore merita una parola a parte: era di taglia grossa, muso corto, collo taurino circondato da un grosso e appuntito collare, pelo bianco e lungo. Esso era il vero padrone del gregge. Quando le pecore erano al pascolo sotto l'occhio attento del pastore, in genere seduto ed intento a costruire le fuscelle per la ricotta, era il cane che badava che nessuna pecora si allontanasse dal branco ed, al minimo cenno del pastore, il cane correva a ricondurre la fuggitiva al suo posto, oppure le impediva di andare sull'« erba netta ». Infatti tutto l'appezzamento destinato al pascolo era « nettato » cioè diviso in molti pezzi, ognuno dei quali a seconda della quantità dell'erba e delle pecore che la dovevano pascere, doveva bastare per un giorno, ed era proprio il cane, dietro indicazione del pastore, che impediva alle pecore di pascolare fuori di quella linea immaginaria che era stata decisa in precedenza dal Mercante con l'aiuto del « vergaro » cioè il capo di tutti i pastori. Ma il cane difendeva il gregge anche dai ladri e dai lupi. In ogni capanna vi erano sempre molti cani che difendevano le pecore al pascolo e le spingevano nel mungitoio. Inoltre nella « monticatura » e « smonticatura » essi badavano a che seguissero il « guidarello » e non restassero arretrate dal grosso del gregge, o peggio non si allontanassero in cerca di pascolo e provocassero un danno, che poi il proprietario avrebbe dovuto risarcire. Un cane ben addestrato aveva un valore altissimo perché giungeva fino a fare le vere e proprie funzioni, certo limitate alla guardia e alla sicurezza, di un pastore.

Era veramente un piacere vedere queste intelligenti bestie nel loro lavoro. Chi è vissuto in campagna a quell'epoca sa per esperienza che era estremamente pericoloso passare in mezzo ad un gregge al pascolo, mentre nessun pericolo si correva transitando anche vicino, ma non troppo, al gregge perché il cane non avrebbe mai permesso che un estraneo all'ambiente della capanna si avvicinasse troppo alle pecore affidate alla sua custodia. Due erano i momenti importanti della vita pastorale che si viveva nella capanna: la sbacchiatura e la tosa. La « sbacchiatura » avveniva, per la gran maggioranza, nei mesi di marzo e aprile perché il vergaro immetteva i montoni nel branco in previsione di far partorire le pecore tutte nello stesso periodo, e ciò per ottenere un prezzo migliore in quanto una partita di maggior volume era più richiesta sul mercato. Ovviamente c'erano delle eccezioni e così in un certo periodo il gregge era diviso in tre parti: pecore lattare, cioè quelle alle quali era stato tolto l'agnello e quindi venivano munte e producevano formaggio, pecore figliate che non venivano munte perché ancora allattavano il figlio non maturo per la mattazione, pecore sode cioè quelle che ancora non avevano figliato e quindi non avevano l'agnello e non producevano latte. Naturalmente la maestria del vergaro stava nel rendere meno gravosa possibile questa divisione, anche perché, come già detto, un buon numero di agnelli portati tutti insieme sul mercato spuntava un prezzo maggiore di una piccola partita ed il Mercante quindi aveva buon gioco a chiedere qualche lira in più al kg. per agnello presentato o preventivamente contrattato. L'agnello delle pecore di qualità vissana o sopravissana, che erano le due qualità imperanti nella Maremma romana, si diceva maturo quando aveva raggiunto i 6-7 kg. di peso e solo allora poteva essere mattato; di peso maggiore sarebbe stato agnellone ed il peso avrebbe portato detrimento alla qualità.

In quei giorni di sbacchiatura la vita nella capanna era molto animata: gli agnelli venivano divisi dalle madri, che seguitavano a chiamarli per un paio di giorni con continui « sbelamenti » (lamenti) ed erano immessi in un apposito recinto formato dalle solite ed onnipresenti reti, ove i pastori provvedevano ad abbatterli, a scuoiarli, a toglier loro le interiora che andavano a formare la deliziosa coratella e gli squisiti budellucci (tutte cose scomparse), ma soprattutto si occupavano di togliere le animelle sempre introvabili e ricercatissime dai rivenditori che le cedevano a caro prezzo ai buongustai.

Così preparato ogni agnello, il casengo portava tutta la partita con le coratelle, le animelle e la pelle, detta bassetta, a destinazione, cioè da colui o coloro che in precedenza l'avevano acquistata. Gli agnelli potevano essere venduti con la pelle o senza a seconda della richiesta da parte delle concerie alle quali il compratore, di solito un grossista rifornitore delle macellerie specializzate, doveva rivolgersi per smaltire tutte le bassette che eventualmente aveva comperato insieme agli agnelli. Quando l'agnello era venduto con la « bassetta sotto », la pelle faceva peso con la carne, altrimenti si combinava un prezzo a parte per la bassetta, ma allora cresceva il prezzo dell'agnello. Certo il prezzo, con o senza la bassetta, era sempre influenzato dall'andamento del mercato delle carni.

La « tosa » era l'altro periodo festaiolo della capanna. Anche in questi giorni la vita nella capanna si animava ed era euforica, tutti erano indaffarati ed allegri. Il Mercante provvedeva a vari inviti, specie fra gli eventuali compratori, e così la fervida attività della capanna era rallegrata, e spesso intralciata, da persone impacciate e curiose che creavano lazzi e motti degli uomini addetti a questo lavoro. Particolarmente preso di mira l'impacciato gruppo delle signore, impedite nei movimenti dalle lunghe vesti e dalle scarpe sempre inadatte a camminare su di un terreno né pulito né piano anzi cosparso di strame e di pietre. Gli uomini che procedevano alla tosatura delle pecore era-no completamente estranei alla capanna ed in genere riuniti in compagnie che passavano da un gregge all'altro, ed il loro lavoro era ricompensato con un tanto a capo. Il vello delle pecore allevate in Maremma variava da un minimo di due kg. per le agnelle ad un massimo di quattro per i grossi montoni. Qualche giorno prima dell'arrivo dei tosatori, si doveva procedere al « salto », che consisteva nel far saltare le pecore entro una fossa, lunga una ventina di metri e piena d'acqua. In genere il salto veniva preparato in qualche fiumiciattolo della tenuta con la creazione di una specie di sbarramento, in maniera che la pecora, che veniva sospinta bruscamente dai pastori in acqua, era costretta a nuotare fino alla sponda opposta, e ciò allo scopo di togliere dalla lana tutte le sporcizie accumulate nell'anno in una vita completamente all'aperto.

Al sopraggiungere dei tosatori le pecore erano « arretate » nello spazio destinato alla tosa e qui, una ad una, venivano liberate dal vello che opportunamente piegato, era immesso in una grossissima balla di iuta appesa per la sua lunghezza a due grossi pali, con una traversa sopra, saldamente infissi nel terreno. La traversa reggeva il sacco aperto ed in posizione verticale ed un biscino era addetto a pigiarvi e sistemarvi i vari velli che gli venivano porti dai pastori. Una curiosità della tosa era data dal pranzo offerto dal Mercante a tutti i presenti che erano molti e comprendevano anche gli eventuali acquirenti con la loro famiglia. Era un pranzo particolare: unico piatto era la « pezzata ».

La pezzata era una zuppa di pane bagnato con sopra verdure e grossi pezzi di « mattarella » e veniva consumato in scodelle fonde di argilla. Nella scodella ogni presente metteva alcune fette di pane sulle quali gli addetti alla cucina (in genere le mogli del vergaro e di altri pastori che vivevano nella capanna) versavano fave, piselli, cicoria, carciofi ecc. con abbondante quantitativo di brodo necessario a bagnare il pane affettato. Sul tutto troneggiavano le « mattarelle », grossi pezzi di pecora cotti separatamente dalle erbe. Ne risultava un piatto veramente delizioso.

Le « mattarelle » sacrificate per questo pranzo erano pecore adulte che per una ragione fisiologica non avevano figli e quindi non producevano latte e sarebbero state dannose al gregge, in quanto avrebbero consumato erba destinata alle altre pecore. Queste pecore, una volta accertato il loro difetto, ed i pastori lo riconoscevano subito, venivano o mattate ed inviate ai rivenditori insieme agli agnelli, o immesse nel gregge dei montoni per evitare che questi, tenuti lontano dalle femmine, cominciassero a lottare fra di loro facendosi del male o magari colpendosi a morte. Terribili erano infatti le lotte fra montoni rivali e non era raro il caso che scontrandosi con violenza e sempre frontalmente, alcuni più deboli si spaccassero la fronte provocandosi la morte. Dopo la tosa la vita del pastore cambiava perché il gregge partiva nei mesi estivi per la « monticatura ».

In quei tempi infatti le greggi, che erano state tosate verso maggio, venivano portate in montagna per due ragioni: perché il pascolo in Maremma era finito o meglio era secco e la pecora non lo gradiva affatto, e per far cambiare loro l'aria, allora non troppo salubre anzi spesso infestata di malaria. Di solito le greggi della Maremma venivano portate sulle montagne tra Norcia, Visso e Cascia e qui stanziavano fino all'ottobre. In questo periodo avveniva la « smonticatura » cioè il gregge tornava in Maremma.

Ovviamente i due percorsi di monticatura e smonticatura avvenivano a piedi e duravano parecchi giorni: quella era la fatica maggiore tanto per il Mercante, sempre alla ricerca di qualche spazio erboso ove far pascere il gregge nelle soste del faticoso viaggio, quanto per i pastori sempre all'erta perché qualche capo non si allontanasse o venisse assalito dai lupi, allora numerosi nella nostra zona, o da ladruncoli sempre presenti lungo le strade « dogane » che percorrevano le greggi.

Le strade « dogane » erano sentieri battuti, larghi oltre venti metri per permettere un facile transito al gregge di pecore abituate a stringersi le une alle altre, e che possiamo rintracciare facilmente nelle mappe dei vecchi catasti. Queste strade andavano da un paese all'altro: ad esempio, da Civitavecchia saliva una dogana che attraverso S. Lucia, bordo dello Spizzicatore, ponte del Bernascone, S. Maria giungeva a Monteromano per poi proseguire ancora. Da Tolfa partiva una dogana che, attraverso il Campo della Fiera, Civitella, Querce d'Orlando, raggiungeva Vetralla, poi Viterbo ed oltre.

Il gregge, diviso in grossi gruppi, procedeva seguendo il « guidarello » cioè un montone che a sua volta seguiva il pastore di testa che lo aveva addestrato apppositamente a seguirlo ovunque come un fedele cane.

L'ammaestramento del guidarello non era cosa facile né semplice. Quando un pastore si prendeva l'incarico di creare un guidarello lo legava alla vita (mai al collo) con una lunga corda, quindi lasciava che il montone, sentendosi legato, cercasse di fuggire ma subito lo richiamava con un poderoso strattone e quando gli era vicino lo gratificava con un poco di sale o altra gradita leccornia; dopo giorni e giorni di tale allenamento il guidarello era domato o meglio ammaestrato e si era creata una specie di amicizia tra il montone ed il pastore, tanto che questi poteva chiamare il guidarello a suo piacimento ed esso subito si avvicinava, sicuro di ricevere ancora un po' di sale. E' noto, infatti, che gli ovini sono ghiotti di sale, tanto che in prossimità della capanna dei pastori era facile trovare lunghe file di « trocchi », tronchi di alberi spaccati e vuoti all'interno come barche, ove sveniva versato il sale da dare alle pecore in particolari periodi. Il pastore che aveva ammaestrato un guidarello era compensato con una certa somma di denaro e con la lunga fune, sempre preziosa in campagna, che era servita all'ammaestramento del montone stesso. Al collo del guidarello veniva messo un grosso campano che, con i suoi forti e monotoni rintocchi, richiamava tutto il gregge a seguirlo, ed era meraviglioso vedere come un gregge di più centinaia di capi seguisse fedelmente quel « din dan ».

Il gregge, nel suo spostamento, era seguito da uno o più carri trainati da tre muli, con sopra tutta l'attrezzatura necessaria al branco ed ai suoi pastori: reti di recinzione per il gregge, caldaie per l'ebollizione del latte e quindi la cottura del formaggio, fuscelle per la ricotta, secchi per la mungitura ecc. ecc. Era compito del « casengo » e dei « biscini », una volta giunti nel luogo di sosta già predisposto dal Mercante, che precedeva di qualche giorno il gregge, preparare le reti per il gregge stesso, procurare l'acqua per il personale ed accendere il fuoco per i pastori, che spesso erano costretti a passare la notte all'addiaccio vicino alle reti delle loro pecore. Giunti in montagna, la vita del pastore era più calma: le pecore che producevano latte erano poche e quindi la mungitura era più sbrigativa, quasi niente agnelli, ed i pastori potevano riposarsi dalle fatiche e passare il tempo in famiglia, perché la gran massa dei pastori, ed i migliori, che venivano in Maremma erano proprio di quelle parti. Il Mercante accorto sceglieva sempre pastori della stessa zona, se non proprio dello stesso paese, in maniera da avere un gruppo di persone che già si conoscevano e magari erano parenti o comunque molto amici, perché ciò facilitava la sua opera evitando i facili contrasti derivanti da scomodo e tenace campanilismo.

Per i pastori tornati in famiglia in questo periodo niente più capanna, ma vera casa, e per lavoro solo la sorveglianza del gregge che pascolava in zone infestate dai lupi, ed in questo erano bravissimi i cani che non temevano affatto le fiere, anche perché erano prudentemente riuniti in gruppi e difesi da puntuti collari.

Il gregge in montagna produceva due prodotti: le piccole succose caciotte di montagna salate o meno, differentissime nel sapore dalla grossa forma mercantile, in quanto la pecora si nutriva di fine erba di altura e quindi produceva un latte meno grasso di quello prodotto in Maremma; ed il castrato di montagna, cioè l'agnello castrato e portato a peso di 20-30 kg. e poi venduto, dalla carne un po' più rossa, ma molto più saporita di quella dell'agnello. Quando giungevano le prime nevi si doveva fare la « smonticatura », cioè il cammino inverso a quello fatto per venire in montagna. Si riformava il gregge, il pastore con il suo guidarello apriva la marcia, seguito sempre dall'immancabile casengo con i suoi carri e con tutte le masserizie e ci si riportava in Maremma, forse in una tenuta migliore e con più erba. Perché questo era sempre il dilemma del Mercante: dove far pascere l'armento e dove trovare ricovero per i pastori. Infatti se il pastore era contento trattava meglio il gregge, lo mungeva con più cura ed alla fine tutto si risolveva in un maggiore e migliore prodotto! e ciò significava più pane sia per lui che per la famiglia in attesa nei paesi di montagna delle Marche, coperte di neve. Perché è bene sapere che il Mercante era sì quello che apponeva il proprio marchio a fuoco sulle bestie, ma era anche quello che doveva provvedere alla vendita dei prodotti ed al pagamento delle erbe, alle paghe dei pastori e di tutti quegli uomini che in una maniera o nell'altra contribuivano all'ottenimento dei prodotti. Perciò se il vergaro non faceva bene la nettatura delle erbe, il caciaro non faceva bene il formaggio e questo si gonfiava, se i biscini non provvedevano a girare le reti e la lana si sporcava o magari, come si diceva in gergo, « Si bruciava », i prodotti perdevano valore ed il Mercante doveva vendere, per far fronte ai suoi impegni, parte o tutto il gregge che forse sarebbe stato macellato, ed i pastori si sarebbero trovati senza lavoro e sarebbero dovuti tornare al loro paese coperto di neve.

L'unione pastore-Mercante era una necessità dalla quale non si sfuggiva, dal momento che le leggi del mercato e della economia imponevano un prodotto genuino ed abbondante che si otteneva solo se tale simbiosi era perfetta e le stagioni buone. Ma spesso le stagioni non potevano dirsi buone o perché l'erba era scarsa, o il formaggio non richiesto sul mercato o la lana si « concallava » (cioè si macerava, perché non asciugata bene, e diventava inservibile) o perché vi era stata una forte importazione che aveva fatto calare il prezzo sul mercato delle filande. Ecco perciò che il lavoro di tutti concorreva al benessere generale, quindi in questo mestiere non si poteva essere egoisti o individualisti e la cattiva volontà di uno suonava condanna per tutti. Questo i furbi pastori lo sapevano benissimo e isolavano o allontanavano colui che cercava di sfuggire il suo dovere.Ma, come abbiamo detto all'inizio, l'attività del Mercante non si limitava solo all'allevamento ovino, che abbiamo cercato di descrivere. Egli si occupava anche dell'allevamento del bestiame vaccino e cavallino, per non correre il rischio che, nel caso di annate particolarmente calamitose o per mancanza di mangimi o per il crollo dei prezzi, tutta l'azienda accumulasse solo passivo e fosse costretta a chiudere.

L'allevamento della vaccina e del cavallo, seconda ma non secondaria attività del Mercante, era completamente differente dall'allevamento degli ovini e quindi richiedeva altro personale ed altra attrezzatura. La vaccina non veniva condotta in villeggiatura in montagna, restava tutto l'anno in Maremma ed aveva bisogno di pascolo aperto, cioè di « larghe » e di bosco. Le « larghe » erano spazi liberi senza alberi e con molta erba e servivano per pascolo; anche il bosco o la macchia servivano per pascolo, ma d'inverno e soprattutto per trovare rifugio (non hanno lana le vacche!), nelle lunghe e piovose notti invernali, in quegli « stazzi » cioè spazi vuoti in mezzo ai cespugli del sottobosco, che possono essere definiti « case delle vacche ».

L'allevamento vaccino e cavallino avveniva in Maremma sempre allo stato brado, all'aperto. Le stalle esistevano solo, seppure esistevano, per i cavalli addetti all'azienda, che venivano montati dai « butteri », i cow-boys locali, e qualche volta, ma molto di rado, per i buoi da lavoro, se erano troppo deperiti o malati e necessitavano di particolari cure.

Ogni azienda degna di questo nome aveva infatti alcuni buoi da lavoro, perché doveva produrre un certo quantitativo di cereali: il grano, per il pane di tutti gli addetti all'azienda, e le biade per i cavalli dei butteri, che dovevano essere tenuti sempre nelle migliori condizioni, o come si dice in gergo, « in forza ». Il Mercante quindi, conscio di tutte queste necessità, quando affittava una tenuta a lui congeniale, sceglieva sempre la parte migliore, più riposata, cioè non coltivata a cereali da più anni, possibilmente « grasceta », per spargervi la sementa necessaria ai suoi bisogni. L'attività del Mercante, è bene ricordare, non era agricola ma eminentemente zootecnica, e la coltivazione era solo complementare e limitata ai bisogni dell'azienda; se, tuttavia, la quantità eccedeva era venduta e forniva un ulteriore guadagno, ma se non se ne ricavava che il necessario, ciò bastava.

Tutte le operazioni di maggese e di semina erano eseguite da buoi castrati e domati ai quali venivano messe le « piastre », cioè delle piastre di ferro appositamente forgiate per aderire alle unghie spaccate dei buoi ed essere inchiodate a queste unghie. L'operazione avveniva in una specie di incastrino di legno detto « travaglio », dove il bue era tenuto fermo e quasi sollevato da terra con robuste corde, che stringevano la pericolosa cornuta testa ed il corpo tutto. Una zampa alla volta era sistemata su delle apposite tavole, in modo che il maniscalco, che eseguiva la serratura, non corresse pericolo di prendersi qualche poderoso calcio, o peggio qualche cornata, nell'eseguire un'operazione affatto gradita al bue. Le piastre servivano a contenere il consumo delle unghie nelle bestie da lavoro, costrette a tirare l'aratro o la barrozza (carro a quattro ruote per il trasporto del fieno) su terreni spesso accidentati, coperti di schegge di pietre e spessissimo fangosi.

Il bue da lavoro ogni giorno eseguiva una « vicenna », che è il tempo effettivo di lavoro, circa sei ore, dalle otto alle quattordici. Prima di tare ora il buttero, come il boattiere, dava da mangiare alle sue bestie, poi iniziava il lavoro che non smetteva fino alla « sciolta », cioè alle quattordici, quando portava i buoi all'abbeverata e distribuiva loro altro mangime (fieno o avena per i più deboli), per poi lasciarli liberi fino al giorno successivo. I butteri facevano un richiamo caratteristico, una specie di fischio, al mattino per chiamare i propri animali, che avevano passato la notte allo stato brado e si erano allontanati in cerca di cibo fresco. Il richiamo faceva accorrere le bestie dove sapevano che avrebbero trovato fieno abbondante.

Strumenti del buttero erano il giogo, l'aratro, le frocette, un ferro a forbice, che veniva introdotto nelle narici del bue per poterlo condurre con più facilità, ed il pungolo, un lungo bastone appuntito da una parte, per stimolare le bestie più pigre, e con una piccola paletta in ferro dall'altra parte necessaria per staccare dal vomere la terra, specie in terreni argillosi e molli. Differente era il comportamento del buttero con il bestiame vaccino non da lavoro: questo tipo di bestiame, al quale si richiedeva solo la vitella, viveva in Maremma, allo stato brado, cioè nella più assoluta libertà.

In genere pascolava sul terreno dove poi avrebbero pascolato le pecore (ma se vi era spazio sufficiente i due pascoli erano separati, con grande vantaggio per la regolarità dell'andamento dell'azienda), perché la sua conformazione mascellare gli permette solo di tagliare l'erba più alta, mentre la pecora può pascere anche erba bassissima. La notte, il bue o la vaccina si ritiravano nel bosco in cerca di un punto ben riparato dal vento e possibilmente in qualche « stazzo » o « forteto ». L'intricato groviglio di fini rami di spine e di liane, che spesso ricoprivano i tronchi di alberi nei boschi, era detto « forteto », perché per un uomo era impossibile entrarci o semplicemente sorpassarlo; per riuscirvi doveva usare il « marraccio », cioè la roncola, che con la sua punta a forma di tagliente becco d'uccello era quanto mai adatta prima ad avvicinare e poi a tagliare i rami di rovi e liane. Ebbene, è proprio dentro questi grovigli che le vaccine, molto aiutate dalle corna e dalla durissima pelle, riuscivano a penetrare e a farne una specie di capannetta che le riparasse, bene o male, dalla pioggia, ma soprattutto dai gelidi venti invernali; ed è qui, in genere, che andavano a partorire, quasi a voler nascondere e proteggere la loro creatura appena nata.

Il buttero, al tempo della « sprenatura » (parto) che si cercava di far avvenire in primavera, sapeva bene dove cercare le madri, per aiutarle eventualmente nel parto, e difendere i vitelli appena nati da lupi e volpi che avrebbero approfittato del particolare momento di debolezza della madre, per ricavare un buon pasto con poca fatica. Dopo poche ore dalla nascita, il vitellino, teneramente asciugato con forti colpi di lingua dalla madre, riesce a stare in piedi e a muovere i primi passi.

Trascorso qualche mese dalla nascita, circa sei, si procedeva alla marchiatura ed era anche questa un'occasione di festa nel piccolo mondo dell'azienda. I più indaffarati erano i butteri, che sui loro instancabili cavalli maremmani dovevano restringere tutte le bestie da marchiare in una spaziosa rimessa, cioè in un luogo recintato dove erano costruiti i « rimissini ». Questi sono ancora oggi costituiti da un grosso e robustissimo recinto in legno, diviso in più scomparti, ma che forma un unico complesso. In uno di questi scomparti, in genere il più piccolo, c'è alla fine una specie di imbuto in cui vengono sospinti i capi di bestiame attraverso uno strettissimo passaggio, adatto ad una sola bestia per volta e chiuso ai due lati da cancelli apribili. Questo piccolo spazio è detto, appunto, « incastrino », perché le bestie vi vengono quasi incastrate e non si possono muovere più. Evidentemente quando una bestia è entrata nell'incastrino, risulta facile legarla ed immobilizzarla, per poi procedere alla mercatura o per somministrare le iniezioni che la immunizzano dall'afta epizotica o dal terribile carbonchio.

Ma tutta questa operazione avveniva solo se si trattava di bestia grossa, perché i vitelli erano « mercati » quasi sempre entro il rimissino, ma non entro l'incastrino. Infatti per i bravissimi butteri risultava facile accalappiare con il lazo il vitello ed imprigionarlo, quindi con velocissima maestria atterrarlo e legargli le zampe. A questo punto giungeva il « massaro » cioè il capo dei butteri, che applicava per qualche secondo sulla coscia destra del vitello il marchio di ferro scaldato fino al rosso, in modo da procurare una bruciatura che non forasse la pelle stessa, e così terminava l'operazione.

La « merca » era la più suggestiva delle operazioni che compiva il buttero ed era il culmine al quale aspirava, perché richiedeva occhio e bravura per lanciare il lazo dal cavallo in corsa, forza e destrezza nel prendere il vitello, nonché la massima sveltezza nella legatura delle gambe una volta atterrato; ed era ancora una grande bravura riuscire a prendere la lingua del vitello al momento della marchiatura ed impedire così che la bestia in quell'attimo traumatico, potesse ingoiarla e restarne soffocato.

Ovviamente, anche in questo giorno di festa campestre, il Mercante era presente con alcuni amici e non si creda che ciò fosse per mera vanteria o al solo scopo di ostentazione, ma gli inviti avevano il fine preciso di far conoscere il nome di quella masseria, la omogeneità del suo bestiame, il peso medio a capo, la resa in carne al mercato dei macellai, che alla fine, al momento della vendita, pagavano qualche lira in più per il prodotto di una azienda nota e stimata. Insomma, una festa che aveva il solo scopo di reclamizzare il prodotto per gli eventuali compratori futuri.

Il Mercante destinava in modo diverso i vitelli nati nella sua azienda a seconda delle loro caratteristiche fisiche. Diventavano tori i vitelli particolarmente favoriti dalla sorte e madri le femmine di bella prestanza senza difetti nell'incornatura e con un buon vaso lattifero utile non per la mungitura ma per la poccia del vitello. I meno fortunati erano prescelti per il lavoro di cui parleremo più diffusamente o, peggio, per il mattatoio se erano deboli o semplicemente in sovrappiù del numero fissato dal Mercante per formare una mandria adatta alle sue possibilità finanziarie. La doma dei buoi da lavoro era un'altra importante attività del buttero. Essa avveniva quando il « giovenco », bue di due anni circa castrato mediamente all'età di un anno compiuto, veniva prescelto in base alla sua struttura ossea, alla sua mole, alla sua docilità, al suo collo possente ed adatto al giogo.

Esso prima di tutto era rinchiuso nel rimissino e vi era lasciato per alcuni giorni in completa solitudine e ciò significava isolarlo dal branco e quindi procurargli un trauma. In tale periodo il giovenco vedeva solo il buttero, che mattina e sera gli portava un po' di cibo e l'acqua. Questa operazione aveva lo scopo di indebolirlo e suscitargli simpatia verso il nuovo padrone, cioè il buttero, che ovviamente aveva cura di toccarlo sul collo e diremmo quasi di farci amicizia.

Il giorno destinato alla prima aggiogatura venivano portati nel recinto due buoi domi e particolarmente mansueti, non con il solito giogo a due posti, ma con la « serta » cioè un lungo giogo a quattro posti. Il giovenco, non senza la fatica e l'impegno di più persone, veniva aggiogato ad uno dei posti centrali, in modo che i due buoi già domi lo avessero in mezzo e gli impedissero di strattonare dall'una o dall'altra parte o magari, come spesso accadeva, di voltarsi per tentare di prendere a cornate il buttero. Questi stava subito dietro l'aratro, cioè alle spalle del giovenco, e cercava di incitarlo a seguire la strada indicata dai buoi laterali, che nel frattempo erano stati messi in moto e trascinavano l'aratro. Finita l'aggiogatura iniziava l'addestramento per il vero e proprio tiro dell'aratro: in questa fase il buttero doveva avere l'accortezza di trattenere leggermente le bestie dome e far tirare di più il giovenco in modo che si abituasse allo sforzo del collo, e seguisse i movimenti dei buoi a lui vicini. Questa operazione era complessa e durava vari giorni, ma alla fine il giovenco era domo ed ubbidiente ad ogni ordine del buttero, come tutti gli altri buoi da lavoro.

Il destino più triste per i vitelli era comunque la mattazione. In base alla superficie di pascolo che il Mercante era riuscito a reperire, egli calcolava la quantità di capi da immettere alla mattazione e così tutte le bestie, non ritenute adatte alla riproduzione e al lavoro, erano destinate al mattatoio. Ciò avveniva a più riprese e i butteri di volta in volta decidevano il numero dei capi da macellare, radunandoli poi per portarli al « carcere », un grosso recinto in muratura che accoglieva (e accoglie ancor oggi) le bestie destinate alla mattazione. In queste carceri erano rinchiuse anche le bestie trovate a pascolare fuori della zona abituale e in un'altra proprietà. Tali bestie erano fuggite dalla « gina », loro territorio abituale, e dalla « razzetta », il branco delle femmine con un maschio che formava razza a sè e portava il marchio di un solo proprietario. Esse erano andate a pascolare altrove provocando un danno, che doveva essere stimato e risarcito dal proprietario della bestia al proprietario del terreno danneggiato, e erano fatte uscire dalle carceri solo ad avvenuta liquidazione di esso. Nelle carceri, dunque, erano portate le bestie destinate al mattatoio, con grande accompagnamento di butteri e di cani, loro fedeli aiutanti, e qui esse dovevano sostare un tempo più o meno lungo in attesa di essere mattate. Il trasporto sul luogo della uccisione era particolarmente straziante perché sembrava che la bestia presentisse il suo destino; chi scrive vi ha assistito nei primi anni di vita e ha motivo di credere che la scena si ripetesse uguale in tutti i paesi della fascia alta della Maremma romana.

In Tolfa il mattatoio era ubicato a circa duecento metri dalle carceri, alla fine di una lunga discesa. Il trasporto della vaccina predestinata, dalle carceri al mattatoio, era uno spettacolo indimenticabile: la bestia, allacciata con due robuste e lunghe corde per le corna, era tirata in avanti da una catena di circa trenta robusti giovanotti. Una catena simile di altri butteri la tratteneva dietro, in modo che la vaccina o il vitellone, visibilmente irritati per tale trattamento, al quale non erano assolutamente abituati, non potessero incornare né gli uomini che li tiravano né quelli che li trattenevano. Dopo qualche tempo di questa specie di tiro alla fune molto singolare, non era raro il caso di bestie che, con la forza della disperazione, sfuggissero alle due colonne di butteri con grande spavento della gente che si trovava sul percorso. Subito altri butteri a cavallo le rincorrevano a cerca-vano di reindirizzarle alle sempre provvidenziali carceri. Altre volte gli animali si « impostavano », cioè si puntavano sulle gambe rifiutandosi energicamente di proseguire, ma alla fine erano costretti a cedere e entravano così legati nel mattatoio, dove erano uccisi.

Ma i butteri si occupavano anche della doma dei cavalli: nel rimissino, più volte ricordato ed elemento indispensabile in ogni tenuta degna di rispetto, esisteva uno spazio più ampio, che era il vero centro del rimissino, nel quale avvenivano tutte le operazioni di merca e di capata (divisione dei capi di bestiame) e nel quale aveva luogo anche la doma dei cavalli. Per questa operazione era necessario che al centro dello spiazzo più grande esistesse lo « staccione », un robustissimo tronco d'albero di almeno trenta cm. di diametro, fortemente infisso al suolo ed al quale venivano legati gli animali da domare. Così avviene l'operazione ancora oggi: il buttero allaccia il cavallo e, dando un giro di laccio allo staccione, fa sì che il puledro, in genere sui tre anni, fra salti, calci, impennate e capriole, si avvicini sempre più allo staccione e giunga con la testa a contatto di esso. A questo punto il buttero con molta attenzione mette al puledro una robusta capezza (cavez¬za), lunga abbastanza perché si possa « dare il giro » al cavallo da domare. « Dare il giro » significa far girare in tondo il cavallo per stancarlo e per abituarlo alla cavezza, che viene un po' allentata, in maniera da dare l'impressione che lo si voglia lasciare libero, e un po' tirata con provvidenziali ed affatto gentili strattoni, per ricordargli che è prigioniero e abituarlo così alla voce dell'uomo, ma soprattutto alla guida della cavezza.

Questa operazione è ripetuta per più giorni, finché, quando il domatore lo ritiene opportuno, si comincia a posargli sulla groppa prima una leggera coperta, poi la sella per ancora qualche giorno. Quando il buttero crede che il cavallo abbia acquistato l'abitudine alla sella, affiancato da almeno altri due butteri su cavalli ben domi, pian piano sale in groppa e comincia la girandola di salti, sgroppate, impennate, calci ecc., ma il bravo buttero resta in sella e così, ripetendo l'operazione per vari giorni, il cavallo viene domato. In questo periodo il cavallo sotto doma non porta le briglie (redini con il morso), che verranno aggiunte dopo, ma il « capezzone », cioè una apposita cavezza a due corde laterali che permette al buttero di richiamare l'animale o a destra o a sinistra. Alcune volte, a seconda dell'indole del cavallo da domare, un capo del capezzone è tenuto dall'aiutante del buttero per evitare che il cavallo, disarcionato il buttero, possa prendere uno spettacolare fugone e sottrarsi per il momento alla doma.

Riprendendo il discorso sull'allevamento dei bovini, va precisato che tale bestiame non richiedeva, come l'ovino, la monticatura, cioè il trasporto in montagna della mandria, però questa alle volte era costretta a spostarsi da una tenuta all'altra e ciò costituiva un'operazione quanto mai faticosa per i butteri e per i cavalli da loro montati.

Quando il Mercante decideva di spostare la mandria da un pascolo all'altro, era necessario prima radunarla tutta in una rimessa della vecchia tenuta e solo dopo tale raduno, che durava più giorni, ci si incamminava alla volta della nuova destinazione. Apriva la marcia il « maione », in genere un placido toro, che portava al collo un grosso campanaccio assicuratogli dal « sovatte », cioè un collare largo e di dura pelle di bue ben fissato al campano. Per abituarlo al fastidio del suono, il toro era stato messo in precedenza nell'incastrino e gli era stato applicato il sovatte e relativo campano ben chiuso con erba fresca in modo che non suonasse, poi era stato liberato. Esso aveva sentito il leggero peso del campano, ma non il suo suono e ciò gli aveva dato poco fastidio, ma, per liberarsene, aveva strofinato il collo su tutti gli alberi che aveva incontrato, facilitando così la perdita dell'erba che nel frattempo si era seccata. Poi aveva cominciato a sentire il suono ed un po' alla volta il fiero toro si era abituato anche a quell'incomodo. Il « maione » era pronto e poteva guidare il branco che lo seguiva, ormai indifferente allo strano scampanio.

Ma la fatica maggiore per i butteri, che erano costretti a cambiare ogni giorno i cavalli per non « sfessarli », era quella di tenere unito il gruppo in maniera che nessun capo, specie se piccolo, si perdesse o fosse rapito. Queste scene, anche se un po' romanzate, possiamo ancora vederle nei vari films western. In conclusione, l'azienda del Mercante, per essere considerata tale, doveva avere le seguenti dimensioni e caratteristiche: due-tremila capi ovini, quattro-cinquecento capi vaccini e cavallini, che necessitavano di una tenuta di almeno millecinquecento ettari, dei quali il quindici-venti per cento a bosco.

I pastori erano una trentina ed i butteri non meno di dieci, a questi si aggiungeva il personale avventizio che era assunto nei periodi di semina, di mietitura, di « monnarella » (estirpazione delle erbacce dalle zone seminate), di tosa delle pecore, di marchiatura del bestiame ecc. Per le necessità di una tenuta il Mercante doveva avere una precisa attrezzatura: alcuni carri trainati da muli, alcune barrozze trainate da buoi, alcuni aratri-chiodo o, più tardi, alcune « coltrine », a seconda del numero dei buoi addetti al loro traino, selle e briglie in quantità adeguata al personale cavalcante, che raggiungeva le dieci o quindici unità almeno, reti da pecore, caldaie per il formaggio di varie grandezze, secchi per la mungitura ed inoltre una quantità di attrezzi minori come zappe, forcine, cordami, sgabelli da mungitori, sementi, che non venivano acquistate ma lasciate dalla massa del grano raccolto, dopo essere state accuratamente scelte.

L'avvento della macchina e dell'economia industriale hanno fatto scomparire la figura del « mercante di campagna », come sono anche scomparsi, o quasi, i butteri, i pastori, il caciaro, la capanna e tutto ciò che caratterizzava quel tipo di società contadina

(DALLE PAGINE DEDICATE A BASILIO PERGI SUL SITO http://www.latolfa.com )

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